e tu, non ridere.


Se il vero è questo nostro tempo da dimenticare
a volte viene in mente che è meglio vivere d'amore.
Avevo un gran timore di non capir più niente del sentimento umano
ma dopo poche ore avevo lei per mano.
Era di primavera, non mi ricordo il mese e neanche l'anno
vidi la gioia fermarsi e farmi un cenno.

Inadeguatamente mi abbandono a questa dolce sconosciuta
l'unica degna di ossessionare la mia vita.
Poi tolgo il cuore dal suo corpo tenue di fanciulla
ma per giocare come un bambino con la palla.

E tu non ridere mio dolce amico
non dare ascolto alle mie stupide emozioni
e tu non ridere che in fondo il mondo
è questo assalto di dolci confusioni.

Così stupita guardava il cielo, il bello, i criminali
ma senza impegno, come fanno le piante e gli animali.
Era persino troppo emozionante per chi allena il suo cuore
coi bei concerti, i discorsi importanti e le letture.
Si camminava casti per la strada o in riva al mare
come due innamorati della Cina Popolare.

E tu non ridere mio dolce amico
non dare ascolto alle mie stupide emozioni
e tu non ridere che in fondo il mondo
è quest'assalto di dolci confusioni.

In una notte calda, piena di abbandono e di tremore
come si suole fare, abbiamo fatto l'amore.
Poi tutt'a un tratto ho visto nei suoi occhi un velo di malinconia
e stranamente, senza dire niente, se n'è andata via.
La luce mia si è spenta e piano piano mi sto spegnendo anch'io
ora è silenzio, nirvana, pace e notte... oblio.

E tu non ridere mio dolce amico
non ti stupire di questa storia mai esistita
si può anche vivere senza capire
se il vero è il sogno o il resto della vita.

(Giorgio Gaber)

domenica 1 aprile 2012

Agart - Niente dolcificante nel caffè


Non penso di saper cucire le parole giuste, dopo così tanto tempo che l'horror vacui del foglio bianco ha la meglio su di me.
Al massimo posso rammendarle.
Bucandomi le dita.
Sporcando l'ago di sangue rappreso.
Ciao, bianco: avevo dimenticato il tuo sapore amaro...
eccomi qua, a mandarti giù di nuovo.

Non ci riuscivo più, ero gelosa delle mie parole, talmente tanto che avevo dimenticato cosa significhi stare qui a vomitare colori, ombre, peccati.
Ne ho bisogno, intossicata di filo d'inchiostro, soffocata da me stessa
e da tutto ciò che invade la mia testa.

Sono nata per questo, in fondo: stare in silenzio e
fotografare/annusare/guardare/respirare
per poi non riuscire a contenere tutto questo.
Non tutto insieme.
Non riesco.
E allora scrivo.
Senza fumare, sbattendo solo le palpebre e respirando nervosamente col naso.

Dopo il punto finale sono vuota.
Sono.
E sorrido, lenta, con gli occhi rossi.



Dicevo che sono qui di nuovo, perchè qualcosa me l'ha chiesto.
Siamo talmente presi da noi stessi, che a volte devono suggerirtelo gli altri, cosa devi fare per stare meglio.
Ho aperto un messaggio di posta per sbaglio, tra le centinaia di cose non lette, pubblicità e truffe.
Una riga sola, due frasi, nessuna virgola.
Mi chiedeva di scrivere, con l'esatta semplicità e gentilezza
di chi tende la mano e ti dice di rialzarti.

Ti ringrazierò a vita, chiunque tu sia.



martedì 13 dicembre 2011

Ti odio.

Non riesco a scrivere.

domenica 4 dicembre 2011

Voltati.



Il cielo era grigio ma il freddo ci aveva dato tregua.


Metto in moto e giro il volante, scivolando sull’asfalto massacrato; la radio mi aiuta con degli ottimi Cure, che sotto le prime luci di natale stanno fottutamente bene.

Mi bruciano le labbra e gli occhi si gonfiano un po’.

Mi passa dentro tutto quello che non ho voluto raccontare negli ultimi mesi, forse anni, e il gonfiore degli occhi si sparge alla fronte, alla bocca e alla gola.

Sfrecciano ombre e marciapiedi lucidi dalla pioggia, mentre rallento e mi passo una mano sul viso. Le luci sembrano immense attraverso le lacrime.

Penso che avrei bisogno di parlare a catena per venti minuti, in un flusso di coscienza che non perdona me in primis, o almeno avrei bisogno di scrivere.

Datemi da scrivere.

Qualcuno scriva quello che dico.

Finiscono le note di una ballata, lenta e dolcissima.

Abbasso il volume e mi tengo stretta in testa quella musica.

Giro dove non dovrei, perchè c’è solo un posto dove riesco a tenermi stretta le cose.

Ricordo che proprio lì mi fu giurato l’amore per sempre, in un’età in cui ancora vuoi crederci:

mi regalò una rosa e mi indicò Roma, che dormiva languida e meravigliosa sotto di noi.

Ora sono di nuovo quassù, perché solo qui riesco a farmi mangiare dalle cose.

Davanti alla città eterna mi faccio inondare dalle cose, senza lottare, senza dirmi che non è amore, senza dirmi che in fondo presto passerà.

Sì.

Prendimi dolore, e fa di me ciò che vuoi;

quando avrai finito, sarò pronta a ricominciare.

Guardo il sole che sale lento e il vento mi taglia la faccia bagnata:

il gonfiore alla gola era sparito e il tuo orologio mi ricorda che è quasi ora di alzarsi.

Le labbra però non hanno mai smesso di bruciare.




giovedì 24 novembre 2011

Per sempre mio.



Le parole non sono granchè, a volte.

Sono più bravi i colori e gli odori a spiegarti cosa significa, ma in qualche modo devo tirare fuori quella quantità di amore che da stasera non saprò più dove mettere, fisicamente e quotidianamente.

Oggi ERA il 24 Novembre.

E’ stato un giovedì, uno di quelli che sta lì in mezzo solo a romperti le palle perché è lungo, e lento, e tutto uguale.

Di fatto stavo aspettando.

Erano giorni che vedevo l’ombra fuori dalla porta di casa.

Anzi, più che vederla, la sentivo: colora le pareti di grigio e il silenzio di strazio.

Lei è molto paziente. Sta lì e aspetta, perché il suo turno è stato scritto e deciso nel momento in cui sei nato.

Aspetta tutti, prima o poi.

E’ stato un giovedì di televisione. Tanta televisione.

Anche senza volume, come fanno i vecchi.

Poi il telefono ha suonato.

Un pianto lento nel salone. E poi un turbine incasinato di macchine, freddo, luci bianche:

la porta si è aperta, e la signora vestita di nero ha timbrato il cartellino.

Oggi E’ il 25 Novembre.

Dopo 14 anni passerò il mio primo Natale senza quella meravigliosa palla di pelo che pretendeva di infilarsi in tutte le buste dei regali.

Sei stato la cosa più bella e più dolce che potessi desiderare.

Compagno di divano/studio/pranzi/cene/tutto.

Ti devo molto, piccolo mio.

Dormi sereno.

domenica 6 novembre 2011

Alla Fine



Voglio venirti a prendere -
nel frenetico scorrere di orelavorocomputerstradetrafficopranzochiavidicasa
- farmi trovare là, con in mano una vecchia scatola da scarpe.
[Coverse All Star, n. 42.5, colore nero; 2007].
Sono davanti al portone di casa tua, e probabilmente già alla quinta sigaretta - ma al signore accanto a me non da fastidio, anzi: fuma anche lui, ma con più gusto di me. Posato, senza fretta e libero dall'impegno di dover guardare continuamente a destra e a sinistra.
[Tabacco sciolto, credo drum, tiro saltuario e profondo].
La spengo con il lato sinistro della scarpa, incazzata che quella stronza sia durata così poco, per dio.

Clock.

Il tuo portone di apre.
[Cuore in gola - credo di avere la bocca semiaperta da ebete].
E' la vecchietta con l'immondizia.
Sbuffo.
Il signore accanto a me mugugna qualcosa dietro agli occhialoni.
Intanto il cielo è meraviglioso [azzurro limpido, sfumato cobalto - h:16:00].

Mi appoggio meglio alla pachina, buttando indietro la testa: dicono che il momento in cui l'uomo ha alzato gli occhi per guardare il cielo sia il passaggio più importante dell'evoluzione umana, l'attimo in cui l'essere umano si è fatto la domanda eterna, tipo chisonoioecosèquelcosolassù.

Io guardo il cielo e penso all'odore di camera tua,
di matite temperate e legno e carta impregnata di te.

"Hai da accendere?"
Abbasso lo sguardo: il solito quattordicenne o non so cosa.

Click.
"Grazie, ciao."

Non lo rimetto neanche in tasca e mi accendo la sesta.
[Lucky Strike XT - h:16:30]

"Fuma sempre così tanto?"
Mi giro di scatto e mi accorgo che il signore con gli occhialoni era sempre là, dove l'avevo lasciato.
"Oggi un po' di più", rispondo secca.
"In effetti, l'attesa a volte può essere molto, molto lunga" - Mi volto a guardarlo e mi rendo conto che fissava il tuo portone.
"Aspetta anche lei?" - gli chiedo.
"No, ho smesso".
[Tiro di sigaretta, il più bello che abbia mai visto]. Sulle ultime due parole abbassa lo sguardo e stringe un taccuino, gonfio di vecchie pagine usurate.
Chissà che odore meraviglioso doveva avere.
[Pelle misto a carta imbevuta di inchiostro e grafite, l'odore più bello dopo quello del pane].
Sospira e mi chiede perchè aspetto.
"Perchè voglio vederlo" - sorride.

Clock.
Questa volta dovevi essere tu, altrimenti sarei morta.
Faccio per alzarmi e venirti incontro: era un ragazzo che ti assomigliava moltissimo, vestito di scuro.
Dovevo dirgli qualcosa, magari lui sapeva... forse sapeva dirmi..
.."Vuole sapere cosa facevo mentre aspettavo?"
I miei intenti da reporter d'assalto furono distrutti in un secondo.
Annuisco e incrocio gambe e braccia, snervata.
Apre il taccuino e mi mostra quelle pagine: raramente avevo visto nella mia vita qualcosa di così cupo e meraviglioso.
Disegni su disegni, malinconia, bianco e nero stagliati in un contrasto abbagliante.
Ti tagliano la faccia.
Decine e decine di visi tristi o incattiviti, che uno dopo l'altro mi ubriacavano di nebbia e sole allo stesso tempo.
All'improvviso poi, un disegno centrato nella pagina; una figura seduta su non so cosa, labbra rosse e un intreccio di curve che i miei occhi catturarono all'istante.

Mi assomigliava molto.

"Come di chiama?" - gli chiedo.
Sorrideva senza allegria, ma in un modo che ti gonfiava il cuore.

"Mi chiamo Signor P."

Mi presento e gli offro una sigaretta.
[Click - h:17:15]

"Lui SA che lo sta aspettando, signorina?" - mi chiede fissando qualcosa.
Scuoto la testa e butto la schiena indietro: in un secondo ero ripiombata nel terrore di non vederti, nella paura che non saresti tornato o sceso, o peggio che avresti dormito fuori, magari da lei.
Stringo la mia scatola da scarpe e penso a tutto quello che c'è dentro. Probabilmente ci sono cose di cui non ricordo neanche l'esistenza, ma voglio che sia tu a tenerle: tra dieci, cinque, due anni, la notte di natale o una cazzo di domenica mattina ti metterai seduto du un divano enorme, pensando a quella ragazza strana e un po' stronza che quella volta si fece trovare sotto casa tua, con in mano una scatola da scarpe.
La aprirai e vedrai che lì dentro c'era tutta la sua vita.
In fondo, si sarebbe messa in ginocchio pur di sapere che non la odiavi più.

"Signor P., lei pensa che scenderà?"

Mi volto e il signore dai modi gentili non c'era più, nè accanto a me, nè da nessuna parte.
Improvvisamente mi sento sola, davanti al tuo portone, con il cellulare che non suona e una vecchia scatola sulle ginocchia.
Appoggio la mano sulla panchina e sfioro qualcosa: il taccuino di pelle era lì, aperto;
mi chiedo come avese fatto, il signore con gli occhialoni, a lasciarlo lì. Lo sollevo e lo sfoglio alla rinfusa.
E mentre Roma era quasi buia, le mie dita sfiorano l'unica pagina strappata,
proprio nel punto in cui, poco prima, avevo visto me stessa.