e tu, non ridere.


Se il vero è questo nostro tempo da dimenticare
a volte viene in mente che è meglio vivere d'amore.
Avevo un gran timore di non capir più niente del sentimento umano
ma dopo poche ore avevo lei per mano.
Era di primavera, non mi ricordo il mese e neanche l'anno
vidi la gioia fermarsi e farmi un cenno.

Inadeguatamente mi abbandono a questa dolce sconosciuta
l'unica degna di ossessionare la mia vita.
Poi tolgo il cuore dal suo corpo tenue di fanciulla
ma per giocare come un bambino con la palla.

E tu non ridere mio dolce amico
non dare ascolto alle mie stupide emozioni
e tu non ridere che in fondo il mondo
è questo assalto di dolci confusioni.

Così stupita guardava il cielo, il bello, i criminali
ma senza impegno, come fanno le piante e gli animali.
Era persino troppo emozionante per chi allena il suo cuore
coi bei concerti, i discorsi importanti e le letture.
Si camminava casti per la strada o in riva al mare
come due innamorati della Cina Popolare.

E tu non ridere mio dolce amico
non dare ascolto alle mie stupide emozioni
e tu non ridere che in fondo il mondo
è quest'assalto di dolci confusioni.

In una notte calda, piena di abbandono e di tremore
come si suole fare, abbiamo fatto l'amore.
Poi tutt'a un tratto ho visto nei suoi occhi un velo di malinconia
e stranamente, senza dire niente, se n'è andata via.
La luce mia si è spenta e piano piano mi sto spegnendo anch'io
ora è silenzio, nirvana, pace e notte... oblio.

E tu non ridere mio dolce amico
non ti stupire di questa storia mai esistita
si può anche vivere senza capire
se il vero è il sogno o il resto della vita.

(Giorgio Gaber)

domenica 6 novembre 2011

Alla Fine



Voglio venirti a prendere -
nel frenetico scorrere di orelavorocomputerstradetrafficopranzochiavidicasa
- farmi trovare là, con in mano una vecchia scatola da scarpe.
[Coverse All Star, n. 42.5, colore nero; 2007].
Sono davanti al portone di casa tua, e probabilmente già alla quinta sigaretta - ma al signore accanto a me non da fastidio, anzi: fuma anche lui, ma con più gusto di me. Posato, senza fretta e libero dall'impegno di dover guardare continuamente a destra e a sinistra.
[Tabacco sciolto, credo drum, tiro saltuario e profondo].
La spengo con il lato sinistro della scarpa, incazzata che quella stronza sia durata così poco, per dio.

Clock.

Il tuo portone di apre.
[Cuore in gola - credo di avere la bocca semiaperta da ebete].
E' la vecchietta con l'immondizia.
Sbuffo.
Il signore accanto a me mugugna qualcosa dietro agli occhialoni.
Intanto il cielo è meraviglioso [azzurro limpido, sfumato cobalto - h:16:00].

Mi appoggio meglio alla pachina, buttando indietro la testa: dicono che il momento in cui l'uomo ha alzato gli occhi per guardare il cielo sia il passaggio più importante dell'evoluzione umana, l'attimo in cui l'essere umano si è fatto la domanda eterna, tipo chisonoioecosèquelcosolassù.

Io guardo il cielo e penso all'odore di camera tua,
di matite temperate e legno e carta impregnata di te.

"Hai da accendere?"
Abbasso lo sguardo: il solito quattordicenne o non so cosa.

Click.
"Grazie, ciao."

Non lo rimetto neanche in tasca e mi accendo la sesta.
[Lucky Strike XT - h:16:30]

"Fuma sempre così tanto?"
Mi giro di scatto e mi accorgo che il signore con gli occhialoni era sempre là, dove l'avevo lasciato.
"Oggi un po' di più", rispondo secca.
"In effetti, l'attesa a volte può essere molto, molto lunga" - Mi volto a guardarlo e mi rendo conto che fissava il tuo portone.
"Aspetta anche lei?" - gli chiedo.
"No, ho smesso".
[Tiro di sigaretta, il più bello che abbia mai visto]. Sulle ultime due parole abbassa lo sguardo e stringe un taccuino, gonfio di vecchie pagine usurate.
Chissà che odore meraviglioso doveva avere.
[Pelle misto a carta imbevuta di inchiostro e grafite, l'odore più bello dopo quello del pane].
Sospira e mi chiede perchè aspetto.
"Perchè voglio vederlo" - sorride.

Clock.
Questa volta dovevi essere tu, altrimenti sarei morta.
Faccio per alzarmi e venirti incontro: era un ragazzo che ti assomigliava moltissimo, vestito di scuro.
Dovevo dirgli qualcosa, magari lui sapeva... forse sapeva dirmi..
.."Vuole sapere cosa facevo mentre aspettavo?"
I miei intenti da reporter d'assalto furono distrutti in un secondo.
Annuisco e incrocio gambe e braccia, snervata.
Apre il taccuino e mi mostra quelle pagine: raramente avevo visto nella mia vita qualcosa di così cupo e meraviglioso.
Disegni su disegni, malinconia, bianco e nero stagliati in un contrasto abbagliante.
Ti tagliano la faccia.
Decine e decine di visi tristi o incattiviti, che uno dopo l'altro mi ubriacavano di nebbia e sole allo stesso tempo.
All'improvviso poi, un disegno centrato nella pagina; una figura seduta su non so cosa, labbra rosse e un intreccio di curve che i miei occhi catturarono all'istante.

Mi assomigliava molto.

"Come di chiama?" - gli chiedo.
Sorrideva senza allegria, ma in un modo che ti gonfiava il cuore.

"Mi chiamo Signor P."

Mi presento e gli offro una sigaretta.
[Click - h:17:15]

"Lui SA che lo sta aspettando, signorina?" - mi chiede fissando qualcosa.
Scuoto la testa e butto la schiena indietro: in un secondo ero ripiombata nel terrore di non vederti, nella paura che non saresti tornato o sceso, o peggio che avresti dormito fuori, magari da lei.
Stringo la mia scatola da scarpe e penso a tutto quello che c'è dentro. Probabilmente ci sono cose di cui non ricordo neanche l'esistenza, ma voglio che sia tu a tenerle: tra dieci, cinque, due anni, la notte di natale o una cazzo di domenica mattina ti metterai seduto du un divano enorme, pensando a quella ragazza strana e un po' stronza che quella volta si fece trovare sotto casa tua, con in mano una scatola da scarpe.
La aprirai e vedrai che lì dentro c'era tutta la sua vita.
In fondo, si sarebbe messa in ginocchio pur di sapere che non la odiavi più.

"Signor P., lei pensa che scenderà?"

Mi volto e il signore dai modi gentili non c'era più, nè accanto a me, nè da nessuna parte.
Improvvisamente mi sento sola, davanti al tuo portone, con il cellulare che non suona e una vecchia scatola sulle ginocchia.
Appoggio la mano sulla panchina e sfioro qualcosa: il taccuino di pelle era lì, aperto;
mi chiedo come avese fatto, il signore con gli occhialoni, a lasciarlo lì. Lo sollevo e lo sfoglio alla rinfusa.
E mentre Roma era quasi buia, le mie dita sfiorano l'unica pagina strappata,
proprio nel punto in cui, poco prima, avevo visto me stessa.


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