domenica 16 maggio 2010
But no one cares (lettera).
prima di gettarmi urlante nella mischia,
di lanciare qualcosa contro il muro
o di bestemmiare dio e ogni suo derivato.
Il contegno che io non conosco, l'eleganza di un sorriso sommesso,
l'attenzione che attrai quando parli sottovoce.
Io sono quella che ride sguaiata e dice parolacce,
che porta gli stivaloni neri e un giubbotto di pelle
consumato sui gomiti.
Sai che sono fatta così.
Sai che il nero è il mio colore, e che in quel non colore
ci vedo tutto: me stessa, e il passato a cui mi aggrappo
se il futuro mi spaventa.
Ecco perché, a volte, scrivo.
Ciò che si scrive è consacrato,
assorbito nella carta bianco/sporcocaffè.
Lo rileggi, anche dopo anni e, alla fine, lo riconosci...
con i suoi odori e le sue voci.
Di te non ho mai scritto realmente.
Ti disegnavo di riflesso, col cuore distratto,
come elemento di disturbo quando scrivevo di altro.
Coscienza repressa che si fa parola;
una poesia che parla di lui e che nasconde tra le sillabe
un fegato divorato dalla voglia di avere un valido motivo per scrivere di te.
Anche l'inchiostro, era nero.
Mi hai fatto male, ma quanto non lo saprai mai.
Chesterfield light nel pacchetto azzurro,
tono su tono con i jeans,
precisamente blu, esattamente cielo d'agosto.
Siamo nati tra le mura della stessa clinica,
probabilmente dalle mani della stessa donna,
e abbiamo sorriso allo stesso modo quando smettemmo di farci domande
e iniziammo a crederci.
L'ironia della vita ci ha messi poi tre le mura della stessa facoltà,
dove nessuno sa chi siamo ma tutti se lo chiedono,
perché vedono energia nata tra il bianco e il nero… energia che non è grigio, ma è luce.
Neanche un chilometro tra i nostri appartamenti,
eppure non è per le strade di questo quartiere che ci siamo conosciuti.
Faceva freddo quella sera.
Era dicembre, il cielo limpido da fare male.
Pungevano attraverso l'aria da neve i tuoi occhi carbone,
fin dentro quel pezzo di donna che ancora non conoscevo
e che pomperà sangue ogni volta che mi guarderai.
Mi sono fatta male, ma quanto non lo saprò mai.
lunedì 10 maggio 2010
Solo certi poeti del male mi sanno cantare.
Roma non sa che fare: si limita a stare lì, imponente grigia, tra la pioggia promessa e il sole apparente. È come se aspettasse il segnale per esplodere, un qualsiasi, dimesso cenno per urlare quanto sia viva, nei colori del lungotevere, ancora. Assenzio, birra, risate e sigarette appena accese: in fondo c’è poco da raccontare quando puoi sentirne il profumo.
Mi piacerebbe fotografare per te quei colori velati di grigio, imbottigliare quegli odori dietro un tappo di sughero… regalarteli, se un giorno avrai bisogno di me. Raccontami di Budapest o Ginevra. Com’era quando non c’ero? Erano belle come le volevi, o ti hanno deluso come me?
Non preoccuparti di niente: tutto ti ha aspettato, annoiandosi a morte. Mi piace ancora mangiare, fumare di nascosto, fingere di essere indifferente alla tua voce.
Bentornati, colori.
Roma, tocca a te.
[Ma vi perdono, perché in fondo portate nel cuore sangue che è destinato a seccare.]