e tu, non ridere.


Se il vero è questo nostro tempo da dimenticare
a volte viene in mente che è meglio vivere d'amore.
Avevo un gran timore di non capir più niente del sentimento umano
ma dopo poche ore avevo lei per mano.
Era di primavera, non mi ricordo il mese e neanche l'anno
vidi la gioia fermarsi e farmi un cenno.

Inadeguatamente mi abbandono a questa dolce sconosciuta
l'unica degna di ossessionare la mia vita.
Poi tolgo il cuore dal suo corpo tenue di fanciulla
ma per giocare come un bambino con la palla.

E tu non ridere mio dolce amico
non dare ascolto alle mie stupide emozioni
e tu non ridere che in fondo il mondo
è questo assalto di dolci confusioni.

Così stupita guardava il cielo, il bello, i criminali
ma senza impegno, come fanno le piante e gli animali.
Era persino troppo emozionante per chi allena il suo cuore
coi bei concerti, i discorsi importanti e le letture.
Si camminava casti per la strada o in riva al mare
come due innamorati della Cina Popolare.

E tu non ridere mio dolce amico
non dare ascolto alle mie stupide emozioni
e tu non ridere che in fondo il mondo
è quest'assalto di dolci confusioni.

In una notte calda, piena di abbandono e di tremore
come si suole fare, abbiamo fatto l'amore.
Poi tutt'a un tratto ho visto nei suoi occhi un velo di malinconia
e stranamente, senza dire niente, se n'è andata via.
La luce mia si è spenta e piano piano mi sto spegnendo anch'io
ora è silenzio, nirvana, pace e notte... oblio.

E tu non ridere mio dolce amico
non ti stupire di questa storia mai esistita
si può anche vivere senza capire
se il vero è il sogno o il resto della vita.

(Giorgio Gaber)

domenica 16 maggio 2010

But no one cares (lettera).

Mi hai insegnato a fare un respiro profondo
prima di gettarmi urlante nella mischia,
di lanciare qualcosa contro il muro
o di bestemmiare dio e ogni suo derivato.
Il contegno che io non conosco, l'eleganza di un sorriso sommesso,
l'attenzione che attrai quando parli sottovoce.
Io sono quella che ride sguaiata e dice parolacce,
che porta gli stivaloni neri e un giubbotto di pelle
consumato sui gomiti.
Sai che sono fatta così.
Sai che il nero è il mio colore, e che in quel non colore
ci vedo tutto: me stessa, e il passato a cui mi aggrappo
se il futuro mi spaventa.

Ecco perché, a volte, scrivo.
Ciò che si scrive è consacrato,
assorbito nella carta bianco/sporcocaffè.
Lo rileggi, anche dopo anni e, alla fine, lo riconosci...
con i suoi odori e le sue voci.

Di te non ho mai scritto realmente.
Ti disegnavo di riflesso, col cuore distratto,
come elemento di disturbo quando scrivevo di altro.
Coscienza repressa che si fa parola;
una poesia che parla di lui e che nasconde tra le sillabe
un fegato divorato dalla voglia di avere un valido motivo per scrivere di te.
Anche l'inchiostro, era nero.


Mi hai fatto male, ma quanto non lo saprai mai.


Chesterfield light nel pacchetto azzurro,
tono su tono con i jeans,
precisamente blu, esattamente cielo d'agosto.
Siamo nati tra le mura della stessa clinica,
probabilmente dalle mani della stessa donna,
e abbiamo sorriso allo stesso modo quando smettemmo di farci domande
e iniziammo a crederci.
L'ironia della vita ci ha messi poi tre le mura della stessa facoltà,
dove nessuno sa chi siamo ma tutti se lo chiedono,
perché vedono energia nata tra il bianco e il nero… energia che non è grigio, ma è luce.
Neanche un chilometro tra i nostri appartamenti,
eppure non è per le strade di questo quartiere che ci siamo conosciuti.

Faceva freddo quella sera.
Era dicembre, il cielo limpido da fare male.
Pungevano attraverso l'aria da neve i tuoi occhi carbone,
fin dentro quel pezzo di donna che ancora non conoscevo
e che pomperà sangue ogni volta che mi guarderai.


Mi sono fatta male, ma quanto non lo saprò mai.

lunedì 10 maggio 2010

Solo certi poeti del male mi sanno cantare.


Roma non sa che fare: si limita a stare lì, imponente grigia, tra la pioggia promessa e il sole apparente. È come se aspettasse il segnale per esplodere, un qualsiasi, dimesso cenno per urlare quanto sia viva, nei colori del lungotevere, ancora. Assenzio, birra, risate e sigarette appena accese: in fondo c’è poco da raccontare quando puoi sentirne il profumo.

Mi piacerebbe fotografare per te quei colori velati di grigio, imbottigliare quegli odori dietro un tappo di sughero… regalarteli, se un giorno avrai bisogno di me. Raccontami di Budapest o Ginevra. Com’era quando non c’ero? Erano belle come le volevi, o ti hanno deluso come me?

Non preoccuparti di niente: tutto ti ha aspettato, annoiandosi a morte. Mi piace ancora mangiare, fumare di nascosto, fingere di essere indifferente alla tua voce.

Bentornati, colori.

Roma, tocca a te.

[Ma vi perdono, perché in fondo portate nel cuore sangue che è destinato a seccare.]